Antonio Quaranta nacque a Carbonara, attuale frazione di Bari, l’otto settembre del 1860. Dopo aver studiato a Bari, si diplomò e aprì in proprio un’accorsata farmacia, nel retro della quale – come si usava in quei tempi – si radunava il fior fiore della città per vivacissime discussioni artistiche, letterarie e politiche.
In tale clima, il Quaranta, gradualmente, fu attratto dalla vita amministrativa per cui, presentandosi candidato ad alcune elezioni, fu eletto consigliere ed assessore di Carbonara. In seguito a questa prima esperienza la sua visuale politica cominciò ad allargarsi e, prendendo a cuore alcuni problemi della provincia, fu eletto, con votazione plebiscitaria, consigliere provinciale del mandamento di Triggiano e Capurso; carica che mantenne fin quando il Consiglio Provinciale venne sciolto.
Appassionato di arte e di musica in particolare, sostenne con vigoroso impegno la necessità di istituire un Liceo Musicale a Bari; ma, quando nel 1925 l’ardua impresa riuscì al maestro Giovanni Capaldi (che ad essa dedicò tutta la vita) egli, che nell’intento era stato mosso non da vacuo esibizionismo ma da intimo convincimento civile, fu il primo a congratularsi col maestro barese e ad esprimergli calorose parole di elogio.
La sua passione per il teatro lirico e la convinzione che gli spettacoli lirici cittadini andassero migliorati, lo indussero ad iniziare la carriera di impresario nel dicembre 1897 (secondo un cronista dell’epoca) con una stagione lirica inaugurata con il “Poliuto” (Vedi “Il Teatro Piccinni” di A. Giovine).
Nel 1900, in occasione del varo dell’ “Ivan” di La Rotella, viene trascinato in una serie di gravi litigi da mecenati e sostenitori dell’allora ventenne maestro bitontino. E, alla fine della stagione lirica, pubblica un incandescente libello, con il quale dimostra di aver perduto oltre ventimila lire di allora per tappare la bocca “a chi fa il bello spirito, che pel primo credè o volle far credere che lo assumere un’impresa teatrale, e soprattutto a Bari, vale porsi in condizioni di guadagnare anche solo dieci lire come premio o retribuzione di un lavoro incessante, di un’ operosità alacre, quanta la bisogna richiede, d’una condizione d’animo agitata e perplessa per quella serie di avvenimenti o impreveduti o soltanto fatali, che appalti siffatti traggono seco inevitabilmente. Eppure di codesti sognatori non mancano e, quel che è strano, è l’osservare che essi si trovano precisamente nella piccioletta schiera di quelli, che fanno la dilettosa professione d’aVversare qui tutte le imprese teatrali (…). Dopo aver commesso l`errore della prima volta, dico l’errore di assumere l’appalto del Piccinni, ho voluto, corrivo di me stesso, essere ribattezzato impresario per mostare di sapervi tornare ravveduto e per desiderio di fare ammenda delle mie possibili, volontarie omissioni. Era l’effetto del fenomeno che mi faceva vedere sempre tutto roseo! (…). Non pertanto ogni anno, con costanza degna di causa migliore, essi creano un’agitazione e le mantengono vive. Ma che vogliono? Essi si procurano e procurano agli altri un po’ di diletto, uno svago, uno sport di nuovo genere, perché in fondo, l’impresa non la vogliono. Si sforzano soltanto di procurarsi buoni titoli per potersi dire nemici dell’impresa”.
(Da un rarissimo, forse unico, opuscolo “Un po’ di storia per gli abbonati del Teatro Piccinni di Bari”; Stagione carnevale-quaresima 1900, Bari, Tip. Fusco, 1900, in possesso del critiCO musicale de “La Gazzetta del Mezzogiorno” Nicola Sbisà).
Nonostante queste delusioni, con rinnovata tenacia, il 14.2.1903 inaugurò il “Teatro Petruzzelli” di Bari con “Gli Ugonotti” di Meyerbeer, (C. Bonaplata-Bau: “Valentina”, T. De Spada: “Margherita di Valois”, Tansini: “Marcello”, La Puma: “Nevers”, C. Cartica: “Raul”, I. Bortesi: “Il Paggio”, E. Ciccolini: “De Retz”, direttore: G. Zinetti, maestro del coro: Achille De Pascale).
E, dal 1903 fino a un paio d’anni prima della morte fu l’impresario per antonomasia del Teatro di Corso Cavour, al quale procurò rinomanza nazionale, dando di opere liriche 1509 rappresentazioni, mentre al Piccinni dal 1897 ne diede 248, senza contare l’attività riguardante altri generi di spettacolo.
Per l’indiscussa competenza e la riconosciuta abilità e la vasta conoscenza del mondo lirico, nel 1907 fu nominato direttore artistico della Società Teatrale Internazionale (STIN) di Milano.
Con arditezza e intraprendenza, varcò, nel 1913, i confini e, con una compagnia lirica italiana, per la prima volta, portò un nostro complesso artistico a Budapest,organizzando una stagione lirica. Di ritorno fu impresario del “Teatro Verdi” di Trieste, ancora sotto la dominazione austriaca, e, quando nel 1918 la città fu annessa all`Italia, chiamò la sua impresa “Ars Redenta” ed ebbe la soddisfazione di fare eseguire in teatro la Marcia Reale italiana, eseguita da Riccardo Zandonai, creando così un clima di esaltazione patriottica del quale ebbero a parlare, con vibranti parole i giornali triestini.
E così dal “Teatro Biondi” al “Politeama Garibaldi” di Palermo, dall'”Adriano” di Roma ai teatri di Lecce, Brindisi e Taranto, fu un susseguirsi di fervida attività, portando dappertutto il nome di Bari, non dimenticando mai di dare la preferenza ad artisti nostri, che egli stesso aveva tenuto a battesimo dopo averli incoraggiati nella via dell’arte.
Qualche tempo dopo fu chiamato a Cosenza dove inaugurò quel teatro e vi rimase come impresario vari anni.
Richiesto a Il Cairo, gestì il “Teatro Reale dell’Opera” nel terzo decennio del secolo meritando elogi e riconoscimenti dal pubblico e da re Fuad.
Antonio Quaranta mostrò quanto possano la passione e la competenza associate all’intraprendenza e al rischio calcolato; scritturò i migliori artisti disponibili sul mercato strappandoli talvolta ad altri impresari a migliori condizioni di ingaggio e fu così che riuscì a scritturare Bianca Bellaire dell’Opera di Parigi (che cantò anche al Piccinni di Bari). Anna Maria Guglielmetti, Maria Polla (che doveva cantare alla Scala nella parte di Liù nel gennaio del 1930), Lina Bruna Rasa e Maria Romanelli. Fra i tenori primeggiarono: Attilio Baggiore del “Reale” di Madrid (che cantò anche al Piccinni nella parte di “Maurizio” in “Adriana Lecouvreur”), il barese Luigi Patruno, Alessandro Wesselowsky e Renato Zanella; fra i baritoni: Luigi Ceresol, Edmondo Grandini e Giovanni Inghilleri, uno dei migliori del tempo. Fra i bassi si notarono Albino Marone, il più grande “Mefistofele”, oltre a Paolo Nastasi e Carlo Ulivi.
Non mancava fra questi artisti l’apporto barese, costituito oltre al Patruno, Gaetano Fanelli, Antonio Catacchio ecc.
Ho voluto riferire questi dettagli per dimostrare il gravoso lavoro al quale si sottoponeva il Quaranta, impegnato contemporaneamente con la gestione di altri teatri e con le inevitabili brighe degli artisti, non tutti e non sempre osservanti gli impegni contrattuali; l’applauso delle folle, le paghe favolose e l’ebbrezza del successo sono le tre …faville, che da sempre alimentano i capricci di cantanti insuperabili.
Proprio a Il Cairo, ebbe con il tenore francese Charlesky una lite, tanto seria da essere costretto a farlo convenire in giudizio, perché il cantante, venuto meno ad alcuni accordi, minacciava di compromettere la buona reputazione del Quaranta presso le alte autorità egiziane, che lo tenevano in gran conto.
Infatti, succeduto a lui un altro impresario i giornali del luogo, nel darne notizia, rievocarono i meriti dell’impresario barese, incitando il nuovo venuto a seguire le orme del predecessore.
Nel 1924, però, a causa dell’eccessiva incidenza delle spese, che rendevano passiva la gestione, fu costretto a rinunziare al “Teatro Petruzzelli”.
Deluso da incomprensioni e irrigidimenti, ripiegò sull’abbandonato “Teatro Piccinni” che, insieme con il generoso Peppino Santoro, attrezzò e rinnovò, giustificando il suo gesto in un’interVista, polemica ma garbata, concessa a “La Gazzetta di Puglia” (30.7.1925).
L’inaugurazione avvenne il 22 dicembre 1925 con “Norma” di Bellini, interpretata dalla Poli-Randaccio, Ebe Stignani, Pornè e dal Mongelli. Uno strabiliante consenso di pubblico che si ripetè con “Fedora”, portata al successo, con altri nomi prestigiosi, come la Baldassarre-Tedeschi, Barra ed altri, sotto la direzione di De Vecchi.
Seguirono la “Cena delle Beffe”, “Rigoletto”, ecc.
Quasi a un anno di distanza (20 novembre 1926) dà sempre al “Piccinni”, e per la prima volta a Bari, “I Quattro Rusteghi” e l’11 dicembre successivo “Turandot”, accolta con scene di incredibile entusiasmo, sotto la direzione di Alfredo Padovani e con la collaborazione della Barla-Ricci, della Polla e di N. Vaccari.
“Il pubblico di Bari” – annotò un cronista dell’epoca – “ha sentito tutta la bellezza dell’opera e, nella profonda reverenza per il Maestro perduto, ha considerato con animo commosso quanta potenza lirica fosse disgraziatamente finita”.
Il Quaranta, barese purosangue, a suo tempo, organizzò anche una compagnia drammatica di prim’ordine, che, in omaggio alla città che tanto amava, chiamò “Città di Bari”, e, fra i suoi meriti, vantava quello di essere stata la seconda compagnia in Italia a portare sulle scene, con sfarzoso allestimento, “La Nave” di Gabriele D’Annunzio.
Le ultime sue fatiche furono la stagione lirica di carnevale 1927-28, per la commemorazione di Niccolò Piccinni, nel teatro omonimo, e la stagione del centenario del “Teatro Dauno” di Foggia.
La sera del 2 febbraio del 1928, mentre andava in iscena l’ultima rappresentazione di “Fasma” di La Rotella, Antonio Quaranta moriva di un male senza rimedio, lasciando così al genero il compito della continuità.
I funerali riuscirono imponentissimi. Presenti tutte le autorità e il mondo dello spettacolo non solo barese.
Gli artisti ingaggiati per la stagione lirica al Piccinni e le masse corali gli tributarono l’ultimo affettuoso saluto, cantando in coro.
“Nella ricorrenza del quarantesimo anniversario della morte” scrisse Giovanni Capaldi nel capocronaca de “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 7 Marzo 1968 – “ci è parso
doveroso rievocare la figura di Antonio Quaranta, che, con dignità di gentiluomo e fede di apostolo, sacrificò tutta una vita, elevando il “Petruzzelli”, che condusse per Ventitre anni, al rango di tempio dell’arte.” (…) “Aggiungiamo – proseguiva il Capaldi – “alla rievocazione, una proposta che ci viene suggerita dalla generosa metropoli partenopea. Si spegneva di recente a Napoli Salvatore Di Costanza. Fra le manifestazioni per onorarne la memoria, quella di una targa nel ridotto del teatro. E, particolare significativo, l’iniziativa è stata proposta dalle stesse masse orchestrali e corali del “San Carlo”. Vogliamo, dal significativo esempio napoletano, trarre gli auspici che una simile iniziativa possa essere presa, con l’adesione dei nostri Enti, nel nostro “Petruzzelli” per Antonio Ouaranta, che legò indissolubilmente il suo nome alla vita artistica della nostra città?
Non è mai troppo tardi per tributare legittimi e doverosi attestati di riconoscimento a uomini che ben meritano dalla riconoscenza della propria Terra, cui seppero conferire innegabili titoli di civiltà artistica”.
Il Quaranta, in trent’anni di attività al servizio dell’arte, portò il nome di Bari a livelli di prestigio mai raggiunti. E, sentendo vivamente il contenuto spirituale dell’arte lirica, alimentò la prorompente passione, in funzione di efficace mezzo educativo per elevare, affinare e sensibilizzare il popolo ad ogni umano e nobile sentire.
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