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Civiltà musicale pugliese

GIACOMO DAMMACCO di alfredo giovine

Nel glorioso firmamento musicale di quella Bari che fu, Gia­como Dammacco rappresenta ancora una stella luminosa che non smentì mai le gloriose tradizioni cittadine. Sconosciuto alle fri­vole generazioni, il Dammacco meritava, invero, un più grato ri­cordo di quanto io mi accingo a rinverdire inadeguatamente.

Nato a Bari il 26 giugno 1883, iniziò i suoi studi sotto la guida dell’autorevole maestro del coro del Teatro Petruzzelli, Achille De Pascale. Questi gli fece prendere, non ancora maturo, confi­denza col palcoscenico, facendolo cantare nella parte di ‘messo’ nelle undici rappresentazioni di Trovatore date nel teatro ba­rese dal 18 marzo al 13 aprile del 1903 (anno dell’inaugurazione del teatro).

Il contatto con artisti già arrivati al successo lo spinsero a per­fezionare i suoi studi a Milano sotto la guida del maestro Alessan­dro Guagni. Debuttò ad Acqui nel 1905 inRigoletto e fu accolto dal pubblico e dalla critica con entusiasmo. “Iddio lo aveva do­tato di una voce unica, dolcissima e di una musicalità straordi­naria, che l’avevano portato giovanissimo ad occupare il primo po­sto fra i tenori di grazia del suo tempo”.

Da Acqui passò acclamato a Torino, Milano, Palermo,La Spezia, Novara, Padova, Modena, Udine, Brescia, Verona, Parma e in circa 40 teatri nazionali. Durante la sua carriera cantò prevalente­mente all’estero: Spagna, Svizzera, Romania, Bulgaria, Messico, Russia, Cile, Perù, Filadelfia, Boston.

Al “Met” di New York cantò nel Barbiere di Siviglia, Sonnambula e Tra­viata conla Barrientos, conla Hempel e con il baritono De Luca sotto la direzione dei maestri Polacco e Bavagnoli. Il successo fu dei più calorosi.

Il critico del Giornale Italia­no del 24 dicembre 1915, dopo la prima di Traviata scriveva:  “Gli elogi più vivi vanno al tenore Dammacco (…) nessuno potrà negare che la grazia, il sentimento, il calore, il buon gusto che questo giovane tenore ha trasfuso nella sua parte, da parecchio tempo non eravamo abituati a sentirli sulle scene del Metropo­litan. Noi asseriamo che Dammacco è un giovane tenore che nella sua simpatica e forse eccessiva modestia, in questo paese, ha qua­lità di voce, di cuore che molti di coloro i quali hanno fatto più strada di lui sulle stesse scene, non possiedono”.

Un altro critico ne Il Bollettino della Sera della stessa metropoli americana, così si esprimeva dopo le recite del Barbiere: “Il giovane tenore Dammacco ha messo in evidenza le qualità della sua voce calda, squillante ed agile nello stesso tempo. La presente edizione del Barbiere, al Metropolitan è forse quanto di meglio oggi si possa ottenere ed è uno spettacolo nell’insieme pregevolissimo”. Incuriosito dalle voci che correvano nell’ambiente teatrale, Caruso, che cantava nell’opera Sansone e Dalila, volle ascol­tarlo e ne rimase ammirato. Dopo essersi rallegrato vivamente con lui, mantenne un’affettuosa corrispondenza fino alla sua morte, ma gli rimproverò sempre la sua mitezza e la sua modestia.

Scoppiata la prima guerra mondiale, il Dammacco rinunziò alla proposta di Gatti Casazza per una nuova scrittura e ritornò immediatamente in patria rimanendo, fino all’armistizio, in quella sua Bari che amò per tutta la sua vita. Durante tale perma­nenza, dal 21 al 25 febbraio 1917, cantò nella parte di Alfredo in Traviata, al Petruzzelli. Dal 3 al 18 maggio 1924 nello stesso teatro si esibì in Madama Butterfly e il 16 febbraio del 1932, diretto da Biagio Grimaldi, cantò nel Sant’Antonio di Zima­rino con “voce così ricca di toccanti vibrazioni, così precisa nell’accento, così piena di calore lirico” – dice Leonardo Mastrandrea – e dinanzi ai suoi concittadini conseguiva un meritato trionfo”. Il maestro Zimarino, a distanza di quindici anni dall’esecuzione di Bari lo definiva “cantore impareggiabile del mio ‘S. Antonio’ specie della predica agli uccelli, superiore all’usignolo e perciò, caro Dammacco, mi siete caro, caro assai”.

Ma Dammacco incominciò ad essere travagliato da una crisi spirituale. Ai suoi famigliari che gliene domandavano il motivo, non ri­spondeva, rimaneva chiuso in sé. Soltanto una volta, con la figlia Maria Teresa, si lasciò sfuggire una frase dell’Iris di Mascagni: “Ognuno pel suo cammino, va spinto dal destino di sua fatal na­tura”. Oggi Maria Teresa, cantante anche lei, così si esprime con affettuosa comprensione: “(…) nella maturità compresi ciò che, nel­l’entusiasmo giovanile che non ammette rinunzie, non gli avevo potuto perdonare e mi resi conto anche di quello che deve essere stato il suo dramma: amava l’arte, ma l’arte in sé e non la parte esteriore ed alle volte meno nobile che accompagna la vita di un artista e che spesso lo aveva ferito nella sua grande sensibilità”.

        E così il Dammacco doveva chiudersi più nei suoi ricordi che vivere di realtà.

       Si riaffacciavano alla sua mente i personaggi in­terpretati nelle opere a lui care: Rigoletto, Traviata, Lak­mè, Butterfly, Don Pasquale, Pescatori di Perle, Son­nambula, Bohème, Faust, Gianni Schicchi, Thais, Elisir d’Amore, Lucia di Lammermoor e l’opera che gli stava più a cuore: Mignon.

Gli ricordava, infatti, il primo incontro con colei che doveva poi divenire l’adoratissima compagna della sua vita: il mezzosoprano romano Laura Del Lungo (che nel 1912 doveva cantare in sei applaudite rappresentazioni di Favorita al Petruzzelli), al Verdi di Padova e “mai la romantica vi­cenda credo abbia avuto interpreti più veraci”.

Ma il Dammacco non ebbe più il tempo per riandare con il pensiero al suo passato ed a tutte le sue care memorie: perse la moglie e, successivamente, tutti i suoi averi e le testimonianze dei suoi più significativi cari ricordi artistici, a causa dei bom­bardamenti aerei su Milano, durante la seconda guerra mondiale.

Avvilito, incapace di imprecare e di protestare, si ritirò nella Casa di Riposo Giuseppe Verdi, della capitale lombarda ove, fra il compianto generale dei suoi colleghi in arte, si spense il 6 febbraio del 1966. (riproduzione riservata  – 1968)

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