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Civiltà musicale pugliese

NICCOLA DE GIOSA di alfredo giovine

Il 7 luglio 1885 Niccola De Giosa moriva in Bari (e non a Napoli, come ebbe a scrivere lo storico F. Florimo incorso in un evidente errore).

Era nato nella città vecchia il 3 maggio 1819 (e non come erroneamente riportato da alcuni dizionari musicali) da Angelantonio e Lucia Favia.

Affascinato dall’arte dei suoni, apprese dal fratello Giuseppe, commerciante e compositore dilettante di romanze, a suonare il flauto.

Il maestro leccese Enrico Daniele, ponendolo nella condizione di dominare il non facile strumento, si adoperò perché il suo giovane allievo potesse frequentare corsi di perfezionamento presso il Conservatorio di Musica San Pietro a Maiella di Napoli. Le doti d’ingegno sfoggiate dal nostro Niccola (era stato così dichiarato all’anagrafe e con la doppia ‘C’ firmava i suoi manoscritti), durante le prove di saggio per l’ammissione, furono sufficienti alla direzione del Conservatorio per ospitarlo gratuitamente. Era l’anno 1834. Gli furono maestri Ruggi, Zingarelli, Donizetti e Mercadante con il quale non intrattenne buoni rapporti, tanto che De Giosa definì l’altamurano “l’Omero dei seccatori”.

Nonostante le avversioni dei sostenitori di Mercadante, nel 1842, al Teatro Nuovo di Napoli fece rappresentare per trenta sere consecutive il suo primo lavoro La Casa  dei Tre Artisti, accolto favorevolmente dal pubblico e dalla stampa. Il clamoroso successo indispettì il compositore napoletano Siri, che aveva visto naufragare la sua opera Elvina andata in iscena tempo prima. Come si può applaudire – osservò – La Casa dei Tre Artisti e decretare il fiasco della mia pregevole opera?. E pur facendo seguire qualche ostile apprezzamento sul generoso collega, questi volle ugualmente rincuorarlo, augurandogli maggior fortuna  in avvenire. Non l’avesse mai fatto. Il napoletano s’inviperì al punto da costringere De Giosa a sfidarlo artisticamente. “Tu, – gridò il Barese – musica la Casa dei Tre Artisti ed io vestìrò di mie note il libretto della tua Elvina. Lasceremo al pubblico di giudicare”.

Siri accettò non mancando di rilasciare vivaci dichiarazioni a destra e a manca sulla sua vittoria, ormai scontata. Il caso si gonfiò enormemente e dovunque se ne discuteva con accorato interesse. Il confronto ebbe momenti clamorosi e si risolse a favore di De Giosa. Per lo smacco subìto il Siri si trasferì in Egitto per lavoro e nello stesso tempo cercò di affogare il suo dispiacere nell’alcool. Rientrato a Napoli nel 1860 vi morì dopo un paio di anni.

Nel frattempo De Giosa continuava a cimentarsi con risultati alterni, ma ìl vero trionfo, quello atteso, si verificò nel 1850 con il Don Checco rappresentato al Nuovo. La novità fu accolta con scene di fanatismo e stabilì un record per quei tempi essendo stata rappresentata per 96 sere consecutive. Due anni dopo a grande richiesta l’opera venne ripresentata al pubblico, interpretata da Luigi Fioravantì che smentì alcune voci secondo le quali il trionfo della prima fu dovuto alla bravura eccezionale del Casaccia, primo interprete e creatore del caratteristico personaggio. Nonostante le malignità delle varie fazioni ostili, circa il Don Checco, resta il fatto che per un importante caso di pubblica beneficenza fu scelta proprio l’opera di De Giosa da rappresentare al Teatro San Carlo. L’affluenza del pubblico fu enorme e l’incasso della serata vistosissimo. Sembrava che il compositore barese avesse toccato l’apice delle sue capacità creative quando alcuni anni dopo, in polemica con l’invadenza dell’operetta francese, sottopose al giudizio del pubblico e della critica la sua nuova opera Napoli di Carnevale che al Teatro Nuovo fu rappresentata per 85 sere, con manifestazioni da tifoseria calcistica.

La serie positiva della carriera di De Giosa comprende anche la sua vasta e importante opera direttoriale al Teatro San Carlo di Napoli, al Teatro Reale del Cairo e al Colon di Buenos Aires. Ma fra tante note liete non mancarono di farsi sentire quelle tristi, rappresentate dalla perdita dei suoi risparmi in seguito al fallimento di alcune banche napoletane, dalla sparizione di una gran massa di manoscritti che una serva incosciente, durante le lunghe assenze del musicista, vendette per pochi soldi ad un salumiere per incartare salumi e formaggi. Altra disavventura gli capitò inaspettatamente durante il periodo di collaborazione con il librettista Giuseppe Sesto Giannini, del quale musicò Ascanio il Gioielliere.

La sera della prima rappresentazione il teatro era quasi deserto. Il povero De Giosa e lo sbigottito impresario non sapevano darsi pace. Sembrava una congiura architettata con diabolica perfezione. Quale il motivo? E quando De Giosa sorprese per caso che professori d’orchestre, artisti e maschere del teatro con molta circospezione facevano strani scongiuri grattandosi in determinate parti del corpo, capì che qualche influsso malefico dovuto a iettatura era in atto.

Fu gioco forza andare in fondo alla cosa e fra molte difficoltà, e reticenze venne a sapere con ritardo che il librettista era considerato un potentissimo iettatore. Fu così che lo spettacolo ebbe fine con una grattata generale.

A parte questi episodi curiosi che il De Giosa rievocava da uomo di spirito con particolari ameni, resta il fatto preminente che fu un eletto messaggero di quella baresità musicale della quale oggi, salvo qualche sporadico caso, non si avverte un felice e auspicabile ritorno.  (riproduzione riservata 1968)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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