Centrostudibaresi.it

Alfredo Giovine

Prefazione di alfredo giovine

So bene, e da tempo, quante discussioni si facciano intorno alla poesia dialettale. Tutto ciò è un gran bene. So pure come si sviluppino queste discussioni sulla letteratura dialettale e sulla sua funzione.
Poichè fra le considerazioni assennate e produttive affiorano anche quelle cervellotiche, scaturite da caparbietà e da idee preconcette, ritengo utile, in difesa della parte valida di un settore della nostra letteratura dialettale, fare qui qualche precisazione.
Va detto subito che questa volta, come esposto nella Presentazione, non pubblico versi del popolo, e quindi l’argomento esula dal bel campo del folclore, ma versi miei, i quali hanno avuto la pretesa di accostarsi e di ispirarsi al folclore barese, cercando di esprimere l’intonazione, che le mille volte ho sentito risonarmi nell’anima, quando raccoglievo e trascrivevo i versi uscenti dal cuore, oltre che dalla bocca della gente.
Poiché in questo settore, in cui ha buon giuoco la Voce “popolo”, affiorano non pochi argomenti, mi sia lecito di svOlgere alcuni spunti sul tema della “poesia dialettale”, che è tanto connessa con tale voce.
La poesia dialettale, che esprime i suoi sentimenti senza staccarsi dal patrimonio letterario culto subendone le influenze, viene definita dal Croce “poesia dialettale riflessa” (“Uomini e cose della vecchia Italia” – Bari, Laterza, 1943, p.223).
Secondo me, tale poesia può anche avere un “tono popolare” (meglio “popolareggiante”, se questo venga inteso nel senso di “alla maniera popolare”) o no.
Queste cose che presento, a parte gli esili risultati raggiunti, pur rientrando nella definizione crociana, inclinano a una maniera popolare che a sua volta si fraziona in due sottotipi, il tipo “popolare cittadinesco” e il tipo “popolarissimo” dei vicoli, della periferia, della campagna e dei luoghi rivieraschi.
Quest’ultimo tipo “popolarissimo” induce il Pasolini a chiamare tale poesia “folclorica” (“Passione e ideologia”, Garzanti, 1960), il Sansone “rustica” (“Letture Comparate”, Marzorati, 1948), e il Menèndez Pidal “tradizionale” (“El Romancero”, 1927), semprechè tali componimenti non restino soltanto modelli e campioni teorici, ma diventino patrimonio del popolo, perché in tal caso diventano popolari, pur avendo avuto fin da principio gusto e schema di maniera popolare.
Va da sé che al contrario potrebbero rimanere popolareggianti, pur non divenendo popolari.
La “cittadinesca” potrà piacere a chi ha subìto l’influsso della poesia letteraria, a chi ha gusto scaltrito e un certo senso critico di valutazione, perché essa tende verso modelli dotti.
A questo orientamento di gusto e alla formazione dì uno stato di cose concorre pure il poeta, cedendo alla soggezione della lingua nazionale (Toschi, “Ulisse”, nov. 1947), oppure facendo prevalere la sua personale partecipazione corredata da un bagaglio culturale, del quale non sì escludono usi, scuole e mode applicate.
Ne risulta quindi un’aspirazione verso un fine artistico, non esclusa la ragione di allargare viepiù la sfera d’introduzione per sganciarsi dall'”angustia locale”, nella quale sono destinate tutte le produzioni dialettali, eccetto poche eccezioni ad ampio respiro, come Trilussa, Belli, Di Giacomo ed altri, che è bene dirlo, vivono nell’àmbito della poesia dialettale d’arte senza avere quel “tono popolare”, del quale abbiamo parlato prima.
In quest’ultimo genere di poesia “il dialetto non è più involontario, non è più condizionato dall’ignoranza dell’italiano, ma diventa una consapevole forma linguistica: insomma una espressione artistica non priva di una certa dignità che non si giustifica più con la ridicola ricerca del lezioso e dell’inedito o con la satirica espressione di sentimenti volgari, ma, proprio
per mezzo del dialetto, intende conseguire particolari risultati d’arte”, per dirla con parole del Parlangèli.
L’altro genere di poesia è gradito dall’autentico popolino, da quel determinato strato sociale che porta con sé una buona dose di analfabetismo.
Qui la poesia deve avere, oltre ad espressioni di immediatezza, anche un vocabolario popolarissimo, semigergale, piegare a concessioni e adattamenti, che raggiungano il livello posseduto dall’ambiente destinatario, nel quale prevalgono determinati gusti e semplicità di sentire manifestando, i sentimenti, la più suadente comunicatività.
E’chiaro che quest’altro tipo dì poesia è di pura marca plebea, che rimane popolareggiante, se non diventa popolare, cioè: ‘non raggiunga quella determinata popolarità': e qui “popolare” va inteso come “fatto suo dal popolo” e non negli altri poliedrici significati (Bronzini, Montemurro, Mt. 1960).
Ma non è detto che quest’ultima Musa del popolino sia sprovvista di certe particolari attrazioni di rude e pur cara primitività.
Il popolino sentirà maggiore comunicativa e ricettività con l’esempio che segue:
“Combinazziòne indèrne / Colètte iì e Colètte megghièrme./ Tutte le fìle c’avim’a fà,/ Tutte Colètte s’honn’a chiamà”,
che non in composizioni di gusto raffinato.
Per quest’ultime si fa appello alla bravura, al mestiere, alla ginnastica cerebrale.
Là, invece, la spontaneità e l’ispirazione scanzonata, terra terra, senza malizia di manipolatori e alchimisti della parola, vive il suo semplice mondo.
E’ dal popolino stesso che escono i poeti “senza volto” e “senza nome”, i quali, interpretando, meglio dei poeti di mestiere, il sentimento del popolo medesimo, non faranno arte, il più delle volte, ma faranno poesia bene accetta a chi è al primo gradino dell’umano sapere e, insieme agli altri, su quello dell’umano sentire.
E noi Pugliesi siamo antesignani di quella poesia popolare e anche dotta.
Una testimonianza antica della culla di questa poesia la troviamo nei Diurnalí di Matteo Spinelli da Giovinazzo:
“Lo Re spisso la notte scèva (andava) per Varletta (Barletta) cantando strambuotte et canzune chella state pigliando lo frisco et co isso ievano dui Musichi Seciliani,ch’erano gran romanzaturi”, (cioè cantatori di romanze, trovatori, poeti).
Dell’altra, la popolare, troviamo l’inconfutabile documentazione, nell’opera autorevole di Giacinto Gimma “Idea della Storia della Italia Letterata” (Napoli, Stamperia di Felisce Mosca, 1823, vol.I, p.192), che in buona parte deve considerarsi poesia dialettale spontanea:
“…nella città di Bari cantar le Maggiolate anche ai nostri tempi si vedono. Sogliono alcuni villani poeti, privi interamente di lettere, cantar il Maggio, come essi dicono conducendo seco qualche coppia di buoi adornati, cantano con suoni per le strade, e avanti i Palagj valendosi de’ Quaternarj con distici rimati, e della propria lingua volgare del paese.
Così le “Mattinate” pur fanno in ogni tempo altri simili poeti anche senza lettere, ed esercitando quest’arte, usano pure la stessa lingua popolare, e la forma dei Quaternarj o delle Ottave Rime.
Stimiamo che non sia fresco quest’uso, cominciato dal tempo dei padri de’ nostri Avi”.
Seguono, dopo i poeti popolari baresi dell’antichità, quelli più recenti, ce ne fa cenno il Petroni ne “La Storia di Bari”, vol. I, pag. 418:
“… Le maggiolate e mattinate or non sono più in uso; ed in quella vece sogliono simil fatta di cantori nelle prime sere dell’anno discorrere per le strade, e fermandosi dinanzi alle case de’ loro conoscenti, cantar con accompagnamento di suoni gli auguri di felicità. Non bella è veramente la cantilena, assai goffi i versi improvvisati; pur di un tal contadino “Muso di Lepre”, si ricordano ancora i nostri, uomo interamente sfornito di lettere, che cantava improvviso su ogni argomento per lo più sacro con versi armoniosi e pieni d’affetto, con novità d’immagini e di concetti, di cui qualcuno s’ode a ripetere.
Anche un intero poema compose in ottava rima sulla vita di san Niccolò”.
Degli illustri ignoti si ricordano “Gudde Gudde” e “Ciccarìidde” de’ quali il Perotti non potè mantenere la promessa di parlarne a causa della prematura morte.
Peppino Lembo, degno rappresentante di una sana spiritualità barese, mi istruì su “Gudde Gudde”.
Mi disse ch’era un lunatico frequentatore assiduo del Caffè Marzano (Via A. Gimma angolo Roberto da Bari).
Questo rozzo poeta, ad ogni luna nuova aveva l’ispirazione; usciva dal Caffè, si portava in Piazza San Ferdinando, a due passi dalla sua residenza abituale e, fra la curiosità degli astanti, improvvisava versi.
Fatto il punto su tale questione, al quale tenevo in modo particolare (tanto vero che la precisazione la ripeto nella prefazione de “Le senètte de amore de lo popolo de Baro”), voglio mettere in evidenza che la parte barese del libro è stata tradotta in italiano perchè è mio convincimento aiutare il lettore non barese ad accedere al nostro dialetto con un surrogato, che per essere tale non potrà mai darci le emozioni dell’originale, come giustamente sostengono il Sansone, il Cocchiara e il Croce, per non parlar d’altri (“Letture Comparate”, Marzorati, 1948; Cocchiara, “Il linguaggio della poesia popolare”,Palumbo, 1951; Croce, “La poesia”, Laterza, 1946).
Perseguo con fermo proposito l’accentazione delle parole dialettali per aiutare nella lettura non soltanto il lettore non barese, ma anche il Barese stesso perché è ostacolo non lieve alla diffusione del nostro dialetto rinunciare a tale ausilio.
Vogliamo imitare malamente l’italiano, che si ostina stupidamente ancora a non far uso dell’accentazione, come stupidamente si ostinano i popoli a non adottare una lingua internazionale per principi di gretto nazionalismo?
Per il momento dò alle stampe queste prime cose che in prevalenza non possono non risentire dello schema e dello spirito tradizionale del canto monostrofico popolare pugliese, come ebbe a rilevare il Toschi in una prefazione ai “Canti Popolari di Gioia del Colle”, raccolti diligentemente dal Celiberti, e in “Rappresaglia di Studi di Letteratura Popolare”, dal quale non potevo allontanarmi per fatto naturale di sentire.
Dalle osservazioni del Toschi è scaturito l’interessante saggio di Maria Laghezza Ricagni “Studi sul Canto Lirico Monostrofico Popolare Italiano”, Olschki, Firenze, 1963, nel quale questo nostro caratteristico canto è stato attentamente studiato.
E’ attraverso questa particolare visuale che bisogna vedere i “Pulpe Rizze” che seguono.
Più in là farò seguire le poesie dialettali spontanee di intonazione popolarissima da me composte durante le soste di lavoro negli scali ferroviari e sulle banchine portuali, le quali non potevano discostarsi dai canti iterativi nostri; e, a differenza di questa raccolta, avranno la tipica espressione adatta per il “palato” del popolino.
Per ora, quanto ho detto, mi è servito per fermare alcuni punti. E non trascuro di precisare che qui per epigramma si deve intendere ‘breve componimento generico’ e non esclusivamente “alla Marziale”.
A conclusione di quanto detto innanzi, ben ricorrono le parole del Croce: “…là dove questi vari toni hanno con sé la eletta creazione della fantasia sulla materia offertale dal sentimento e dalla passione” (…) “vi si fondano in varie gradazioni e sfumature, componendosi in una nuova e geniale unità”, alle quali ho tentato di tenermi aggrappato.
E se non sono riuscito ad avvicinarmi sia pure alla lontana a tutto questo, vorrà dire che la mia intenzione è rimasta tale e non è andata più in là di una semplice aspirazione.
Non ci sono riuscito? Poco male, ritenterò !

 

 

Altri siti utili

Cerca nel sito