C’è un proverbio molto comune che dice “chi va al mulino s’infarina”, nel senso che la dimestichezza con persone, con luoghi, con usanze influisce su chi vi pratica e con l’esempio dato attrae a fare altrettanto, vale a dire ciò ch’è fatto da quelle date persone, in quei dati luoghi e nello svolgersi di quelle date costumanze. Avviene perciò, che, bazzicando con le rime del popolo, non solo si diventa folcloristì, cioè studiosi di tutto ciò che va a costituire la vita d’un popolo, ma ci si contagia di quel bellissimo “morbo”, che si chiama “poesia popolare”, e si compongono versi in dialetto del popolo, si assorbe l'”animus” di questa poesia popolare e ci si mette, quasi direi, in gara con il popolo nell’agone poetico.
Non aveva torto il poeta tedesco Goffredo Augusto Burger, il tanto celebre romantico settecentesco, quando affermò che la “sola vera poesia è la popolare”.
Qualcuno dirà ch’esagerava, ma certo è che la poesia popolare ha un fascino irresistibile e agisce possentemente sui cuori di chi la sente.
Ciò naturalmente potrà avverarsi, in chi ha già in sé il germe poetico – germe benedetto – com’è avvenuto in Alfredo Giovine, barese purosangue, il quale aveva già tre “naturali” tendenze “a contagiarsi” di poesia popolare: e quali?
Aveva un ardentissimo amore al folclore della sua amata città, fino a colmare una lacuna nel settore intellettuale di Bari, fondando l’Archivio delle Tradizioni Popolari Baresi; – conosceva in profondità quel tesoro, che per ogni cittadino di questo mondo è il proprio dialetto, tanto che il Giovine – come potei rilevarlo anch’io – seppe mettere in luce tutte le più riposte vaghezze e tutte le risorse idiomatiche della parlata barese; da anni poi ha raccolto un prezioso patrimonio di detti, di proverbi e d’indovinelli baresi, di credenze baresi e di baresi costumanze, specialmente del passato.
E allora era ovvio, anzi inevitabile ch’egli, sulla scia luminosa del folclore letterario barese si sentisse attirato a dare forma dialettale d’intonazione “popolare” a rime “proprie”.
Dal folcloristico al “personale” non c’era – e non c’è – che un passo.
Ecco spiegata l’origine di questi componimenti, che non sono più del popolo barese, ma sono del Giovine, sono “cose sue”, e belle davvero, che egli battezzò “epigrammi ed epigrammoni”, sotto il titolo baresissimo di “PULPE RIZZE”, squisito mollusco cefalopode del mare nostro, della cui “arricciatura” il Giovine stesso ci presenta il ricordo nella figura di “u pulparùle” nella sua “Bibbia Barese”, a p. 41.
Quand’ebbi la ventura di leggere in copia dattiloscritta questi versi, senza sapere ancora che fossero suoi – “roba sua” – pensando che fossero di qualche popolano e da lui soltanto raccolti, in calce a parecchie pagine avevo notato, tra parentesi, le più vive spontanee espressioni laudative.
Oggi che so d’avere avanti a me versi del Giovine, mantengo tali espressioni di elogio in tutto il loro significato volitivo, perché se le meritano indubbiamente.
Infatti in tali versi del Giovine vibra un calore genuinamente “popolare”, su un fondo del pari fedelmente popolare, con la tinta simpaticamente burlesca, in cui il popolo è maestro, e talora godevolmente satirica; ma ferve copiosa anche la liricità di popolo, e perfino quel certo tono cordialmente elegiaco, né più né meno di ciò che sa fare e sa dire il popolo, nel quale Benedetto Croce a buon diritto ha riconosciuto sempre “un bravo poeta”.
Si noti poi, che i componimenti chiamati dall’Autore “Baresìte”, i quali esprimono con commozione un accesissimo amore a Bari, io li definisco con piena convinzione “un particlare poetico atto di amore alla città di Bari”, la quale deve pertanto al Giovine un vivo affetto di madre verso un figlio, che le è stato perennemente fedele e quasi direbbesi morbosamente affettuoso.
Chi non conosce l’amore dei Napoletani per la loro Napoli? Ma l’opera di folclorista barese e questa nuova testimonianza di baresità mi fanno dire, all’indirizzo di Alfredo Giovine, che molti napoletani, messi insieme, non superano in intensità e in trasporto, l’amore, che il Giovine nutre con così inestinguibile fiamma per quella Bari, della quale tant’è invaghito, da chiamarla costantemente la “zita mè”: la sposa mia.